Appennini e cascate.

Uno, nessuno, centomila……Supramonti.

Il Supramonte sardo non è quell’unità territoriale a cui siamo abituati
a pensare dai tempi della geografia scolastica, ma ha caratteri culturali
e morfologici diversi, che ne fanno un variegato assemblamento di
terre e monti la cui principale caratteristica è la desolazione, nel senso
etimologico di abbandono, di lasciato solo(de-solo), una specie di
deserto di pietra. Tutto questo accomuna i Supramonti di Baunei,
Urzulei, Dorgali, Oliena, Orgosolo, che per altro verso conservano
caratteri peculiari che li rendono assai diversi l’uno dall’altro.
In questo viaggio sardo ne abbiamo esplorati due, quello di Baunei
e di Urzulei. Il primo è caratterizzato dal vasto altopiano pianeggiante
del Golgo, boscato rigogliosamente a lecci e querce da sughero,
digradante verso il mare in tormentate codule (letti di torrenti
prosciugati), che si aprono la strada verso il mare in una teoria di
bastioni calcarei perforati da grotte e zone franose, cesellati da
sentieri che assumono spesso le fattezze di ferrate improvvisate, a
cui viene dato il romantico nome di “Selvaggio blu”, itinerario di trekking
che sale dalla costa di Santa Maria Navarrese fino Cala Luna, della
durata di diversi giorni, considerato uno dei percorsi più difficili d’Italia.

Noi abbiamo fatto il braccio che si estende alla conosciutissima Cala
Goloritzè, famosa per l’imponente guglia minareto,alta 145 metri,
che si innalza proprio come un enorme faro naturale accanto alla cala,
meta ambita dei climbers più agguerriti.

la guglia di Cala Goloritzè

La spiaggia in sè è minuta e troppo frequentata, la regione Sardegna
ne controlla i flussi, facendo pagare un ticket di ingresso che serve per
la manutenzione dei sentieri e della cala. Ciò non toglie il fascino al
contesto, dato dalla magnificenza de trekking e dal senso di euforia che ci
pervade mentre planiamo lentamente verso quell’immenso blu che si
fa sempre più enorme man mano che scendiamo come capre dagli
scoscesi dirupi della codula. E poi fare il bagno in quel mare blu
nuotando fino all’arco naturale che ne delimita la spiaggia, è qualcosa
di impagabile ed appagante.

Mi appare però chiaro che il mare non è il vero contesto da cui si può
capire qualcosa del mondo sardo, apparendo la cala metaforicamente
come una semplice finestra che si apre verso l’orizzonte blu dagli spalti e
dalle mura ciclopiche di calcare chiaro in cui è costruita la fortezza sarda.

Già l’altopiano del Golgo appare un mondo altro rispetto alla turrita
costa orientale, terra rossa disseccata al sole obliquo del tramonto,
dove capre e mucche scheletrite pascolano rade erbe accanto a
verdi stagni, ai limiti di profondi boschi di leccio e quercia da sughero,
orlati sulla linea di orizzonte da frastagliate creste rupate, macchiate da
radi e bassi arbusti. Una chiesina con la facciata bianca e le spalle in
pietra spunta dal nulla, mal protetta da una staccionata di legno,
forse un tempo nell’enorme piazzale antistante si svolgevano feste e
cerimonie pastorali. Ma ora non c’è nessuno, neanche un filo di vento;
la chiesina solitaria di fronte all’enormità della Natura ricorda la caducità
delle credenze umane, così stridenti al cospetto di un mondo reale
adagiato alle porte del nulla, in cui luci e tenebre quasi si toccano sul
far del tramonto. Lo sguardo ruota a chilometri di distanza, in ogni
direzione e nulla trova di simboli umani. La Natura appare immobile e
ferma nel tempo, come nel profondo passato. Colgo lo stesso sguardo
dei nostri antenati, ascolto nel silenzio gli stessi suoni dei pastori erranti
che qui convenivano per la festa e per la benedizione del gregge.
Le voci dei compagni, adunate sotto un enorme bagolaio, mi richiamano
al presente. Torniamo alle faccende umane, al consueto fruscio e agli
scossoni dell’auto che scende lentamente dal ventre del Golgo, giù verso
la terrazza che domina il golfo di Santa Maria Navarrese.

Il giorno successivo risaliamo lungo l’Orientale Sarda (S.S.125), liscia strada
d’asfalto, sinuosa e silente, verso il comune di Urzulei, dove inizia un altro
Supramonte, non toccato dal mare, caratterizzato dalle più alte e scoscese
cime della zona, come il monte Novo San Giovanni a sud-ovest, il Corrasi
a nord già nel territorio di Oliena e soprattutto il monte Su Nercone che
ne rappresenta il bastione orientale, dal cui altopiano nascono e si dipartono
diversi rii e torrentelli che come in un gigantesco imbuto, convergono nel
torrente Flumineddu, che forma uno dei più maestosi e profondi canyon
d’europa, chiamato Su Gurropu. L’acqua dall’altopiano, che si trova sopra
i mille metri d’altezza, filtra dalle porose pietre calcaree in una serie di pozzi,
per lo più inesplorati, precipitando a valle per centinaia di metri, plasmando
nel suo millennario passaggio, le bizzarre forme che assumono i vari strati
di roccia. L’attacco del sentiero che conduce all’ingresso del canyon si trova
al passo di Ghenna Silana, lungo la strada statale,accanto ad una casa
cantoniera ben restaurata. Costeggiando gli spalti del monte Su Nercone
scendiamo lentamente i quattro chilometri che ci separano dall’ingresso del
canyon; qui il colpo d’occhio è notevole,scivoliamo accanto ad enormi pietraie,
sul versante opposto una grande selva con macchie gialle di ginestra e mimose.
Sul sentiero incrociamo il tipico rifugio in legno dei pastori, riadattato per chi
fa trekking.

Il sentiero termina nel letto del torrente, l’artefice millennario del canyon, di cui si intravede già l’imponente ingresso. Guide e mappe della zona classificano la risalita del Gorropu secondo tre gradi di difficoltà: zona verde,gialla e rossa.
Noi ci siamo spinti fino alla zona rossa, proseguire oltre pare impossibile se non
si hanno calzature ed attrezzature adatte, vista la presenza di poderose frane che ne ostruiscono il percorso.

L’immersione nel canyon è totale, in silenzio si
affrontano i passaggi più impegnativi, mentre sopra le nostre teste sentiamo
i richiami di molte specie di uccelli che qui vivono , lungo la verticale parete che si innalza per 500 metri,nidificando su qualsiasi cengia o
sporgenza nella liscia parete, chiamata ironicamente dai sardi Hotel Supramonte, omaggiando il grande Fabrizio De Andrè.

passaggio zona verde
la verticale di 500 m (hotel Supramonte)

L’impressione è quella di entrare in un gigantesco tempio, cauti e timorosi al cospetto di tale grandezza e magnificenza. L ‘attacco alla zona rossa è punteggiata da tanti omini di pietra , più o meno grandi, come si trovano in particolari luoghi del Nepal o del Tibet, atti ad ingraziarsi qualche divinità della montagna o forse semplicemente per lasciare un
segno flebile del nostro passaggio. Sono gli unici reperti umani che si incontrano, è questo che dà al Gorropu quel fascino un po’ sinistro e spettrale. Si penetra in un luogo lontano dalla nostra immaginazione, seguendo i passi del nostro particolare Cuore di Tenebra, che tanto ha attirato gli avventurosi ed esploratori del passato.
La mitologia indica in Crono, figlio di Era dea della terra e di Urano dio del cielo, il semidio che presiede a questi luoghi; ma ce lo dice anche un’antica credenza dei pastori,l’unione di cielo e terra, in un particolare punto del canyon, dove è possibile vedere le stelle del cielo anche di giorno.

inizio zona rossa

Si resta atterriti dalle forme e dalle forze che hanno modellato questo luogo, dalle spinte,dalla violenza cieca che testimoniano gli ammassi di detriti, le frane cadute dalle pareti verticali,
gli enormi massi arrotondati e dal bianco candore, tutto creato dai venti,dalle pioggie e soprattutto dalle acque, che qui scompaiono inghiottite da sifoni sotterranei che le fanno riapparire più a valle, spinte in superficie da strati rocciosi impermeabili, in forma di fresche pozze verde-smeraldo purissime, dove il pastore o il viandante accaldato viene per rinfrescarsi dopo il difficile cammino.
Il Flumineddu è metafora della creazione e della vita, potente e ammaliante: dalla singolarità primordiale al big bang, incoerente e gravido di immani, casuali e oscure forze, fin nel suo basso corso, fuori dal canyon, giù verso la piana di Oddoene traversata dai filari di vite, dal logos, Il torrente si apre alla vita, ai boschi rigogliosi, al corbezzolo, all’elicriso e ai mille fiori profumati
che punteggiano le tante piscine naturali che si formano tra le bianche pareti di calcare.

Angoli di fiume che hanno la grazia e la perfezione di una composizione Zen o di un haiku ben scritto, angoli dove lo spazio e il tempo rimangono sospesi in un attimo infinito, impigliati nella vertiginosa purezza della bellezza.

ALLA RICERCA DEL TEMP(I)O PERDUTO

Luoghi e misteri dell’Appennino

Conosco bene il comprensorio del monte Cucco e del suo parco regionale, la considero insieme al monte Nerone la montagna più bella della zona. Questo per un insieme di motivi che vanno della bellezza paesaggistica, al vasto numero di sentieri sempre tracciati e mantenuti in maniera impeccabile, grazie al contributo anche dell’Associazione Uomini Originari di Costacciaro,
che hanno mantenuto un autonomia gestionale del territorio retaggio di un antico editto medioevale.
Deltaplano, parapendio, torrentismo, speleologia sono le altre perle che rendono il parco una specie di montagna incantata per gli amanti degli sport all’aria aperta e dell’outdoor. Ma c’è anche un Cucco
diverso, più misterioso ,legato alle leggende e alle antiche storie raccontate dai vecchi del paese, davanti al fuoco di un caminetto, a bassa voce, oppure dagli antichi cantastorie che ahimé, oramai sono quasi scomparsi, come sono scomparse intere generazioni di montanari che hanno abbandonato
questo genere di vita dura per il richiamo della città e delle sue comodità. Qualche vecchio ancora conosce le storie di santi, anacoreti che si rifugiavano nelle numerose grotte presenti nel territorio, gravido di religiosità e di afflato come testimoniano i tanti monasteri che costellano il territorio,
come S.Emiliano, Sitria, San Girolamo. Invero tutto l’appennino è carico di testimonianze storico-religiose essendo in epoche passate molto piu’ abitato vista la presenza di abbondante acqua, legname e pascoli per
gli armenti. Però quando ho saputo di questa cosa sono sobbalzato sulla sedia e ho subito preparato una visita al luogo per sincerarmi dell’effettiva presenza dei “Cinque spacchi del Diavolo”.

Come spiegato nel filmato,l’ubicazione del luogo lo rende di facile accesso,appena superato l’abitato di Costacciaro,lungo la statale Flaminia, si giunge dopo un chilometro ad una deviazione per l’abitato di
Caprile, presso il cimitero del paese.si tratta di un minuscolo paese all’imbocco di una stretta valle che divide il monte delle Gronde dal Poggio Foce. Non essendoci alcuna indicazione nè qualcuno a cui
chiedere, appena lasciata l’ultima casa dell’abitato e prima del ponticello che supera il fosso, mi sono inerpicato in una ripida scarpata erbosa che porta in tutta evidenza all’inizio della cresta affilata che caratterizza il Poggio Foce, aiutato da qualche camminamento probabilmente creato da animali al pascolo.

la scarpata erbosa dopo l’ultima casa di Caprile

Salendo faticosamente si nota a sinistra un boschetto che termina ed accompagna la cresta fino ai Cinque Spacchi,
a cui si arriva dopo neanche mezz’ora di cammino. La salita è faticosa ma in breve si esce dal cono d’ombra del boschetto in piena luce e il paesaggio si fa apprezzare con tutta la veduta sulla Val di Chiascio.
La luce dell’imminente tramonto è morbida e irradiata trasversalmente rispetto alla mia marcia e all’orografia della cresta, che in certi punti è assai stretta e scivolosa, completamente esposta sul lato valle con un
orrido di almeno cento metri di profondità che fa accapponare la pelle. Però il sentiero rimane sufficientemente largo per passare senza patemi d’animo, ma solo con un pizzico di attenzione in piu’.Ci si accorge di essere
vicini alla meta per due indizi inquietanti: un paio di alberi contorti e completamente bruciati di cui resta lo scheletro ed una croce di metallo li’ vicino, in un luogo assai strano perchè normalmente vengono messe
o nelle cime dei monti od in luoghi dove qualcuno è morto.

la cresta del Poggio Foce ed in fondo il paese di Costacciaro

Fatti ancora pochi passi si arriva al primo spacco,
il piu’ grande, che noto solo all’ultimo momento perchè si apre improvvisamente nella roccia viva, la scaglia
grigia di cui è fatta tutta la cresta. Dopo aver visitato tutti gli altri spacchi e ritornato al primo decido di attendere il tramonto del sole. Oltre le ipotesi, piuttosto fantasiose descritte nel filmato, ci sono altre ipotesi forse più

all’interno dello spacco del diavolo più grande, vista ad est
particolare del muro visto direzione ovest

razionali che meritano di essere studiate, specialmente quella di una specie di Tempio del Sole a cui queste bizzarri spacchi, certamente opera dell’uomo, tendono a convergere, come ben spiegato in questo altro sito.

https://arcefisia.webnode.it/news/sulle-traccie-di-un-preistorico-tempio-solare-dellappennino/

Mentre attendevo impaziente il tramonto del sole,all’interno del primo spacco(il pollice del….diavolo),il mio pensiero si soffermava sui ragionamenti matematici e astronomici del signor Farneti, e li collegavo con le mie
elementari competenze di astronomia. Riflettevo sul fatto che l’ovest corrisponde a 270° solo il 21 marzo e il 21 settembre, giorni dei cosidetti equinozi, mentre per il resto dell’anno il sole nasce e tramonta cambiando di
continuo punto di tramonto( e di alba),spostandosi verso sud ovest di circa 36° nel periodo invernale e traslando invece verso nord ovest di circa altri 36°nei periodi che vanno verso il solstizio d’estate, come un pendolo che
oscilla da sud a nord, passando per l’ovest perfetto solamente nei giorni degli equinozi. Questo ragionamento vale naturalmente anche se si prende come riferimento il punto cardinale est, cioè l’alba. (90°).Una traslazione di ben 72°.
Se le rilevazioni prodotte con gli strumenti adeguati del signor Farneti con gps, portano a definire l’angolo che la luce del tramonto forma collegando il “pollice del diavolo” con il pianoro di ricezione del raggio solare che
tramonta, nella misura di 232°, ci troviamo grosso modo dove il sole, in quel luogo, termina la sua traslazione verso sud, (ricordate? 270°- 36° fa 234°)per poi tornare indietro, verso, l’ovest, verso la primavera. In poche parole quello spacco é la conferma visiva che grida “oggi è il 21 dicembre” e i giorni da ora in poi non potranno altro che allungarsi verso la bella
stagione. Un grande viatico per degli esseri umani primitivi che vedevano con sgomento la luce del sole diminuire di giorno in giorno. La certezza che la Natura segue all’infinito i suoi cicli vitali e con lei tutte le sue creature.
Quindi l’ipotesi di un Tempio del Sole non mi pareva affatto peregrina. Una nostra piccola Stonehenge degli Appennini.
Perso in questi ragionamenti attendevo quieto ,mentre l’ombra della cresta saliva sempre più in alto lungo i fianchi boscati del monte delle Gronde, in un trionfo di macchie colorate che rallegravano il fitto bosco dove migliaia di anni
fa sorgeva forse un grande manufatto umano.

l’ombra della cresta del poggio Foce sul monte Gronde, a vista visibile lo spacco del diavolo

Un rapace, con il suo singolare richiamo, simile a uno schiocco, traversava la profonda valle, il canto del fosso più in basso, tra mulinelli e cascate metteva allegria, il richiamo del camoscio maschio si spargeva
nella profonda gola, l’aria era completamente ferma. Questo paesaggio, questi suoni che ora sentivo e vivevo erano già stati sentiti e vissuti nella profondità dei tempi, da altri uomini, da altre creature.
Pensavo ansioso che ero lì un giorno di fine ottobre, mancavano ancora due mesi all’appuntamento con il solstizio d’inverno,
il punto preciso avrei potuto vederlo solo il 21 dicembre, ma almeno avrei potuto farmi un idea della zona di caduta dell’ultimo
raggio solare, e magari andare un altro giorno in esplorazione. Ma il destino beffardo questo giorno ha voluto giocarmi uno
scherzo, il sole all’imbrunire si è andato a nascondere dietro delle alte nuvole che ingombravano lontano l’ultimo spicchio del suo cammino, con la conseguenza che l’immane ombra proiettata lungo la costa del monte delle Gronde prima si è affievolita e poi è scomparsa del tutto. Ma non si è certo affievolita la mia curiosità, nè il mio desiderio di tornare in
questo magnifico luogo proprio il giorno del solstizio d’inverno

Massimo.

Il pajar del diavlo

Il Pajaro del Diavolo, ovvero il pagliaio del diavolo, è un pinnacolo di roccia formatosi grazie all’azione erosiva degli eventi atmosferici. Lo stesso domina la vallata dell’Eremita, nei pressi di Pianello di Cagli, lungo la strada provinciale che collega Cagli a Pianello. La vallata, in epoca medievale era sede di un eremo, l’eremo di San Nicolò, fondato molto probabilmente da San Romualdo e tutto intorno al Pajaro del Diavolo ancora oggi sono visibili i ruderi delle celle abitate anticamente dai monaci. Il suo nome deriva, oltreché dalla forma, dalle tante storie e superstizioni formatesi nei secoli. È raggiungibile, dopo una impegnativa camminata, sia partendo dalla provinciale Cagli-Pianello, sia imboccando un sentiero che da Pianello porta in quota verso Frontino e la Costa della Mandraccia, per scendere poi in direzione del suggestivo pinnacolo di roccia, dal quale si gode di una vista eccezionale su tutta la vallata dell’Eremita. Noi l’abbiamo raggiunto partendo dalla strada provinciale Pianello-Cagli, come da mappa che allego, salendo su un sentiero boscato,segnato su pietra n. 21-22, con dislivello subito importante in una vecchia ed ampia carrareccia coperta da erbacce perchè oramai non più in uso. Dopo circa 30 minuti di salita si arriva ad un bivio riconoscibile dai ruderi delle celle degli eremiti romualdiani che qui vivevano in completa solitudine. Si deve abbandonare il sentiero principale e salire a sinistra in un sentiero chiaramente visibile che sale sinuoso in un fitto bosco. Si arriva alla base del pajar aiutati anche da provvidenziali segnavia rossi presenti sporadicamente sui tronchi degli alberi, che più si sale e più diventano piccoli e fitti. Dalla base del pinnacolo un evidente sentiero a sinistra sale sull’erba fino alla cima del monumento naturale.Attenzione nel tratto finale perchè ci si trova un po’ esposti sul lato valle. Spettacolo bellissimo e inquietante, prigionieri tra il pajar e la rupe retrostante che lo circonda completamente. Si tratta di un affioramento di maiolica rossa,assai presente in zona monte Nerone. Alla fine un buon cammminatore ci arriva in meno di un’oretta. Penso che sia il miglior percorso perchè dalla costa della Mandraccia la discesa dicono sia molto impegnativa e il sentiero debolmente tracciato.

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Orrido di Monte Nerone

Una delle cinque meraviglie naturali da visitare nascoste tra le viscere del monte Nerone,la piu’ importante montagna dell’appennino Pesarese, e’ certamente l’Orrido dei Cupi di Fiamma,dal nome del toponimo che contraddistingue questa isolata valle che chiude il lato sud-orientale del monte. Tale orrido è noto nelle credenze popolari anche come “l’orto del Diavolo”. È profondo circa 50 metri ed alto 25, con una cascata che
rimane attiva tutto l’anno, nei pressi di Pianello di Cagli  e lungo l’alveo del torrente denominato “Pian de l’acqua. La vallata giurassica lunga circa tre chilometri consta di molte cascate da dove la sorgente della “fonte dell’eremo” ha modificato e scavato creando un ambiente ancora primordiale e poco noto.

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Lungo i sentieri si vedono ancora i segni della produzione di carbone da legna (carbonaie) che ha caratterizzato l’economia locale per molto tempo.
Oggi tale ambiente è mèta di escursionismo, sia per camminare nei suggestivi sentieri sia per calarsi nella forra. Data la presenza di altri toponimi di intonazione misterica-religiosa come il dolmen del “Pajar del Diavlo”(pagliaio del diavolo), sublime piramide in maiolica rossa,poco distante dalla forra, si desume che questi luoghi hanno esercitato nei millenni, tra le popolazioni locali, forti influenze e paure primordiali come è testimonianza la credenza dell’abitatore dell’Orrido, il mostruoso Chiatte, animale a due teste,(pioggia e nebbia?), protettore dei carbonari dalle invasioni degli estranei.Invero il fascino della natura in codesti luoghi è abbagliante,come quando si entra nell’angusta gola che precede l’alta cascata, che appare trasfigurata con le fattezze  delle  volte di un  chiesa gotica che la Natura ha eretto a se stessa, con la cascata al centro del transetto. Si rimane ammutoliti e storditi dalla grandiosità delle forze in campo, con il rombo dell’acqua che si fa sempre più potente man mano che ci si avvicina. Si puo’ allora comprendere l’inquietudine e la meraviglia degli antichi abitanti della valle al cospetto di tali potenti forze della Natura.

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La vallata di Pianello entra nella storia quando, durante l’età del Bronzo medio (circa 1500 a.C.), le prime tribù di cacciatori-raccoglitori giunsero ad abitare le numerose grotte poste alle pendici del Monte Nerone, fra le quali spicca per importanza il complesso naturale di Fondarca, presso Pieia. Recenti campagne di scavi effettuate nella zona dall’Università della Tuscia, hanno portato alla luce numerosi reperti (scodelle, olle, resti di ossa animali, ect.). La valle, secondo quanto indicano i più recenti studi, venne poi colonizzata dalle popolazioni Umbre, probabilmente in conseguenza di un Ver Sacrum, ovvero una Primavera Sacra, rituale tipico delle antiche popolazioni italiche. Nella zona, ritenuta sacra per via delle alte vette e delle numerose sorgenti che sgorgano dal monte Nerone, si installò verosimilmente la tribù dei Pieienates, una delle tribù Ikuvine che hanno lasciato una descrizione di riti e cerimoniali nelle famose Tavole eugubine conservate a Gubbio. La vallata di Pianello è sempre stata una zona di confine e, con l’ascesa di Roma, si trovarono contemporaneamente ad interagirvi le genti umbre, quelle delle confinanti zone etrusche, le popolazioni celtiche, che da tempo si erano insediate nella zona, ed i nuovi conquistatori romani che infine ebbero il sopravvento su tutte le altre popolazioni, le quali vennero gradualmente integrate ed assorbite, dando così inizio ad un nuovo periodo storico che ha lasciato profondi segni sul territorio.

Venendo alla definizione del percorso per accedere alla stretta valle, il punto di partenza privilegiato per risalire la solitaria valle rimane sempre la località di Tanella, situata circa uno-due chilometri dopo l’abitato di Pianello di Cagli, lungo la strada asfaltata che conduce a Pieia. Un grande cartello in legno con la scritta e un bel parcheggio erboso sul lato opposto strada sono i segnali inequivoci che potete tranquillamente iniziare il cammino. Si potrebbe anche partire dal paese soprastante di Cerreto seguendo il percorso 24bis del Cai, ma questo è preferibile perche’ e’ stato sede di ritracciatura completa con segnavia blu-rosso ogni 200 metri circa, quindi facilmente rintracciabile.      IMG_20200618_164541 (2)

Una placca bicolore vi appare appena prima di entrare nella stretta valle, che seguirete con il torrente alla vostra sinistra. Devono essere fatti tre guadi, non troppo difficili, a meno di piene del torrente causa pioggia o disgelo.In questo caso saranno utili delle ghette da applicare alle scarpe oppure un paio di scarponi piuttosto alti. Vi muoverete in uno stretto sentiero circondato da arbusti alti, a seconda della stagione, fino ad arrivare appena dopo il terzo guado ad una radura abbastanza larga,la ex cava di pietre di Bonatti; a sinistra,con chiari segnavia blu-rossi sulle rocce dovete prendere il sentiero che sale dal fosso lungo una pietraia e poi entrando in un fitto bosco che vi condurrà fino all’imponente impluvio glaciale situata a circa metà percorso.

Qui vi si parerà davanti un albero con segnavia indicante prima cascata-orrido seconda cascata; superate l’impluvio e addentratevi nel comodo sentiero che lentamente scende verso il letto del torrente in un suggestivo ambiente boschivo. questo non è il sentiero 24bis ma essendo un po più basso vi conduce agevolmente alla forra,dove incontrerete due deviazioni che scendono nel letto torrentizio, la prima in una lunga falesia e la seconda alla prima cascata di circa 15 metri.

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Rimanete sempre sul sentiero alto, che alla fine “muore” dentro il fosso a circa 200 metri dall’Orrido. Ora seguite le tracce presenti tra il fogliame, qualche piccolo guado e siete arrivati a destinazione. I più coraggiosi possono tentare,dopo aver visitato il canyon tentare di aggirarlo per visitare la terza cascata ed infine uscire sul sentiero 24bis. Bisogna salire sul lato sinistro della forra (destra idrografica), in un sentiero evidente accanto alle rocce e arrampicarsi in una specie di ferrata munita di corde di sicurezza.

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E’ un sentiero per gente allenata, difficile da fare in caso di pioggia recente per la presenza di diversi impluvi scivolosi, da sconsigliare per chi ha poca esperienza. Secondo le normative Cai fino all’Orrido il sentiero si può definire E ( per esperti), dopo diventa EE(escursionisti esperti) se non EEA(escursionisti esperti ed attrezzati). La cosa migliore,arrivati all’Orrido e girare i tacchi e tornare al punto di partenza dalla stessa via. Comunque questo è uno dei percorsi più divertenti e affascinanti che abbia mai fatto in zona.  Buon cammino.

qui sotto traccia percorso.

https://my.viewranger.com/route/details/MzEzNjIyMw==